LA TRASPARENZA RETRIBUTIVA QUALE PANACEA DELLE DISEGUAGLIANZE ECONOMICHE


4 minute read | January.22.2025

Il 17 maggio 2023 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea la Direttiva 10 maggio 2023 n. 970, recante disposizioni in materia di parità di retribuzione tra sessi e, più in generale, di trasparenza retributiva (la «Direttiva») ed il cui recepimento, seppur sembri lontano nel tempo, essendo previsto per il prossimo 7 giugno 2026, porta con sé adempimenti così impegnativi da richiedere un’immediata presa di posizione sui relativi contenuti da parte di tutti i datori di lavoro.

La Direttiva, in tal senso, non fa ostaggi, applicandosi a tutti i datori del settore privato (a prescindere dalla dimensione dell’impresa) e del settore pubblico che si avvalgono della prestazione resa da lavoratori subordinati (senza che rilevi la categoria di inquadramento e la tipologia contrattuale), lavoratori domestici, lavoratori a chiamata, lavoratori intermittenti, lavoratori somministrati, tirocinanti ed apprendisti, arrivando addirittura a contemplare i «candidati all’impiego», ovvero – benché non definiti dalla Direttiva stessa – quei soggetti che partecipano all’iter di selezione per posizioni vacanti.

Quanto precede per attaccare già nella fase embrionale le diseguaglianze economiche che, volenti o nolenti, il mondo del lavoro conosce da sempre. Per far ciò, la Direttiva impone agli Stati Membri di adottare sistemi che consentano di assicurare la trasparenza retributiva in ogni fase del rapporto di lavoro e (soprattutto) ad ogni costo. In tal senso, i datori di lavoro saranno chiamati a rendere nota la retribuzione che vorranno corrispondere per una determinata posizione lavorativa aperta, rendendola visibile già all’interno dei canali utilizzati per pubblicizzare l’offerta, essendo peraltro a loro inibito chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni precedentemente percepite (per dirlo con altre parole, stop alla prassi di richiedere l’esibizione dell’ultima busta paga).

In costanza di rapporto, invece, i datori di lavoro saranno chiamati a rendere edotti i lavoratori dei livelli retributivi esistenti in azienda, oltre a dover strutturare percorsi di carriera che siano fondati su «criteri oggettivi e neutri», tra i quali la Direttiva richiama quelli legati alle competenze dei singoli, all’impegno profuso, alle responsabilità assegnate e alle condizioni di lavoro tout court.

Lo scopo di tale impostazione è quello di prevenire, per quanto possibile, l’introduzione di trattamenti economici impari tra uomini e donne «per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore», che non siano altrimenti giustificabili sulla base di parametri oggettivamente valutabili.

Al fine di garantire il pieno rispetto dei suddetti dettami, la Direttiva fornisce appositi strumenti di tutela al lavoratore, il quale potrà ricorrere in giudizio al fine di ottenere il ristoro per i danni subiti. In tale contesto, accertata la sussistenza di un trattamento disuguale di genere in azienda, il datore di lavoro sarà gravato dell’onere di provare che tale disparità sia dovuta a ragioni che esulano dal genere di appartenenza del dipendente. Prova, sicuramente, di difficile dimostrazione e che dovrebbe sin da subito portare a ripensare le attuali politiche retributive, funzionalmente a renderle compliant con la Direttiva. Ciò, quindi, richiederà una presa di posizione degli imprenditori che dovranno, per primi, contribuire a formare una cultura della parità retributiva. A tal proposito, di assoluto interesse appare l’appunto inserito nel considerando n. 51 della Direttiva, nel punto in cui precisa la necessità «di introdurre la formazione obbligatoria per il personale delle risorse umane sulla parità di retribuzione e sulla valutazione e classificazione professionale neutre sotto il profilo del genere». Così facendo, il legislatore europeo riconosce l’importanza di sensibilizzare le risorse umane ad una cultura della parità e trasparenza retributiva, affinché quest’ultime adottino ed implementino nelle aziende dei meccanismi di valutazione e classificazione del personale fondati su parametri trasparenti, neutri ed oggettivi.

La Direttiva, in altre parole, prova a fungere se non da panacea quantomeno da siero contro l’incancrenirsi di un sistema ormai sovraccarico di disparità (limitatamente a questa sede) retributive, e si innesta su di un crinale che oramai da anni sta cercando di fornire strumenti alla parte contrattuale debole per agire sul mercato con maggiore forza negoziale. Il c.d. Decreto Trasparenza, le disposizioni in materia di Gender Pay Gap, il whistleblowing e (oggi) la Direttiva sulla Trasparenza Salariale tutte insieme considerate fanno parte di una politica che vede nel fare azienda conformemente ai principi dell’ESG (Environmental, social, and corporate governance) l’unico modo per introdursi in una nuova era dell’imprenditoria che, oltre a potersi definire etica, si spera apra una stagione virtuosa, che accresca così la ricchezza (in senso lato) di chi fa impresa anziché rappresentare un eccessivo ed ulteriore aggravio per chi la ricchezza tenta di conseguire.